“Il mio terapeuta dice che…“
Intraprendere il proprio percorso psicoterapico può richiedere un tempo in cui, l’embrione del cambiamento possibile in ciascuno di noi, lentamente o per dirla bioenergeticamente un respiro ed un passo alla volta, possa sedimentare prima di iniziare a mettere nuove gemme e fiorire pienamente.
Mi è capitato di notare come da principio nel setting psicoterapico, possa affiorare da parte del paziente soprattutto la propria consolidata mitologia autobiografica, un affresco tendenzialmente cristallizzato fatto di di parole coreografate, di un intricato dedalo di costrutti, apparentemente assiomatici, attraverso cui presenta se stesso ma che lo imbrigliano; emerge dunque la lente d’ingrandimento attraverso cui osserva la propria vita ed i suo muoversi (e/o lo stallo) in essa. Talvolta tali costrutti possono essere coriacei, monolitici… hanno il senso di una corazza caratteriale e mentale cui forse è difficile rinunciare, poiché inizialmente ha assolto con ogni probabilità, il prezioso compito di difenderlo dall’erosione di correnti traumatogene. Col tempo però, se troppo rigida e stretta questa corazza può divenire sintomo e fonte essa stessa di insoddisfazione, frustrazione, malessere… purtuttavia può capitare di mostrarle ‘gratitudine’ estrema in maniera disfunzionale… finendo addirittura con l’identificarsi con i propri sintomi, in un labirinto dogmatico che lascia poco spazio all’emersione del vero sé del paziente, poiché lo tiene aggrappato a quell’involucro al contempo rassicurante e asfittico, ad un narrarsi ipnotico, sempre identico a sé stesso che lo ingabbia.
Ma nelle asperità della vita e nelle condizioni di stress possono nascondersi risorse: ci racconta infatti Abraham J. Twersky che, come accade con il carapace dell’aragosta una volta diventato limitazione alla crescita del crostaceo piuttosto che protezione, viene tolto di mezzo e sostituito; mentre, nel tempo di transizione necessario allo svilupparsi di una più adeguata corazza, l’aragosta trova riparo dai predatori, proteggendosi all’interno delle pareti rocciose del fondale marino, che potrebbe essere, procedendo per metafore, proprio il ruolo assolto dalla relazione tra terapeuta e paziente in cui trova riparo per quel tempo necessario al suo ulteriore evolversi.
Col trascorrere degli incontri, la possibilità di rendersi permeabili a nuovi percorsi mentali, alla qualità di relazioni difformi dal noto… alle possibilità insite in esse, l’emersione del dubbio che esitano altri equilibri possibili, accessibili… procedendo attraverso le proprie intuizioni incarnare sempre più vitali perché esperite nel qui ed ora delle sensazioni corporee cui dare peso, rilevanza, ascolto, respiro, spazio e significati rinnovati, trovano il loro iniziale sbocciare attraverso l’incorporazione delle parole nuove e la ‘lente bifocale’ della relazione terapeutica e dunque accade spesso di sentire racconti ludici di pazienti che introiettano queste nuove narrazioni di sé… attraverso l’incipit “Il mio terapeuta dice che…” quando affiora in loro il desiderio di compartecipare delle nuove acquisizioni, la cerchia affettiva più prossima… quasi come se ci fosse un’implicita richiesta, un dissodare il terreno per preparare anche gli altri al proprio divenire, una silente richiesta di rassicurazione “Mi accetterete anche se sto cambiando per divenire più simile a me? Sarò accolto anche se cambierò un pò gli equilibri consueti?!“…
Da qui, ancora oltre… affiorano nuovi sentieri, il dar voce e corpo alla propria capacità creativa di plasmare sé stessi secondo quanto è stato legittimato, accolto, riconosciuto, validato… quindi finalmente, la propria voce autentica ed il procedere sulle proprie gambe!
STAY GROUNDED ❤